Molte fiere del tartufo sono ormai superate: mancano pubblico internazionale e un racconto culturale. Grandi città come Venezia e Bologna possono rilanciarlo come simbolo globale di preziosità enogastronomica
Oggi molte fiere del tartufo sembrano più che altro passerelle per politici locali. Il pubblico è spesso composto da consumatori locali che preferiscono acquistare direttamente dai cavatori di fiducia, piuttosto che affidarsi ai commercianti in fiera. Il risultato? Il tartufo non si vende come una volta.
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Senza una visione globale e un pubblico internazionale, certe fiere rischiano di diventare inutili. Lo confermano molti espositori e commercianti: gli investimenti non giustificano più i risultati. Le fiere locali, troppo spesso provinciali e poco strutturate, si riducono a semplici passeggiate del weekend.
Invece di puntare solo sulla cucina, è necessario valorizzare il tartufo come un miracolo della natura. Il racconto deve partire dalla sua biologia – il peridio, la gleba, la pianta simbionte – e arrivare al suo utilizzo in cucina e all’abbinamento con il vino. Serve un’analisi sensoriale profonda, nobile e affascinante, accompagnata da esperti e giornalisti del settore, per restituire al tartufo il suo prestigio.
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Le grandi fiere devono puntare su città dal respiro internazionale come Venezia, Bologna e Milano, capaci di attirare pubblico da tutto il mondo. Solo così il tartufo può essere raccontato come un simbolo della cultura, della gastronomia e del turismo italiano.
Il tartufo non deve essere relegato a un racconto stagionale che si spegne a metà novembre. È una storia che merita di essere narrata 365 giorni l’anno.